Ammetto di essere sempre stato convinto che il termine industria 4.0 rappresentasse una comoda astrazione con il vestitino nuovo da sfoderare al convegno annuale dei Giovani Industriali nei salotti di Santa o di Rapallo. Un archetipo ignorante e consolatorio per illuderci che tecnologia e lavoro seguano mano nella mano l’inevitabile evoluzione di una serie TV piuttosto che la naturale cronologia dell’epica tra Rocky Stallone ed Apollo Creed.
L’equivoco di base è che “l’Italia è fondata sul lavoro” ma per le generazioni degli ultimi vent’anni queste parole hanno il peso delle ali di farfalla perchè al solito dietro le chiacchiere e le bandiere della politica trovano le rovine postindustriali di spiagge occupate da vecchi stabilimenti di auto o acciaierie tossiche, ed un esercito di impiegati oggi privilegiati e garantiti ma già domani pensionati che gli toccherà pure mantenere. Eppure come nel 1984 di Orwell non tutto è perduto nel nostro rovente giugno 2017 ormai postcapitalista, perché l’industria 4.0 l’ho vista davvero, esiste con una tale solare evidenza che l’ho immediatamente riconosciuta. Perché il vero problema dell’Umanità non è tanto come direbbe John Belushi che “Dio è morto” quanto piuttosto che quando era vivo e vegeto non l’ha visto. Per questo trovo un obbligo sociale raccontarvelo.
Ho capito attraverso questa esperienza che l’Industria 4.0 ma in generale tutta la modernità alla nostra portata in questo ventunesimo secolo, dipendono dalla capacità di alcuni di riuscire a mettere ordine nel caos, unendo i pochi punti utili nello scenario sociale ed economico così da comporne come per magia un disegno originale, efficiente e bellissimo. Forse dal disordine di Jim Morrison: “tutto è in frantumi e danza” la sfida dei Millenials è proprio di imparare ad ascoltare e suonarne la musica perché i frantumi si ricompongano in un nuovo ordine senza che smettano di danzare.
Immaginate che a Milano sia necessario realizzare un nuovo albergo cinque stelle da quattrocento posti letto. L’assessore dopo un breve giro di telefonate e tweets tra i suoi amici incarica del progetto il team di architetti e PR che da dieci anni promette la trasfigurazione del benzinaio di piazzale Accursio in chiringuito cubano. L’obiettivo subito dichiarato dal team di archistar è di realizzare il grattacielo più curvo del Mondo dove tra il ventesimo ed il trentesimo piano troverebbe posto il nuovo albergo. Insistendo nello sforzo di immaginazione spingiamoci a credere che la lungimiranza del sindaco lo abbia portato a chiedere una proposta in merito anche al collettivo universitario della Bicocca o del Politecnico o ad un nucleo tosto di Millenials.
Questi dalle loro cuffiette dei Radiohead e dal budget decisamente più limitato scelgono per la realizzazione dell’albergo la sfida dell’innovazione/ immaginazione. Quella medesima sfida che il mio professore chiamò “la prova del latte” degli anni ’60, per chi non c’era si tratta della rottura del processo progettuale e storico che portò da un giorno all’altro la distribuzione del liquido più venduto ogni giorno nel Mondo dalla bottiglia di vetro alla scatola in cartone di tetrapack confezionata nelle forme più fantasiose. Una rivoluzione che cambiò per sempre i sistemi di packaging imballaggio e trasporto non solo del latte ma di ogni altro alimento liquido. Credetemi fu un vero e proprio “salto quantico” tra universi paralleli realizzabile solo quando si sceglie di mettersi in gioco prescindendo dall’esistente.
Il risultato concreto è che il grattacielo più curvo di tutti aspetta ancora un fondo sovrano di Dubai o di Putin che decida di finanziarlo, mentre l’albergo da quattrocento posti letto sognato dai millenials io l’ho visto davvero: centotrenta suites bellissime personalizzate una per una, ho visto la sua reception ed il suo call center di ragazze indaffarate, ho visto le centotrenta chiavi appese belle ordinate i fila per dieci sui loro ganci come da tradizione, ho visto gli appunti sulla lavagna alle loro spalle: ritardo, refund, alle 20 ricordarsi di…
Ho visto i loro conti, nella mia fantasia ovviamente: centotrenta suites all’occupazione del 70% per un ricavo medio di $$$… caspita, funziona! La sua architettura è liquida, quantistica: partendo da AIRBNB o meglio dal suo modello commerciale trasforma l’organizzazione del tempo in spazio fisico dove abitare. Se questo non è far danzare i frantumi delle nostre città su musiche nuove cos’altro è? La sua location è diffusa sul centro di Milano allargato fino a comprendervi la Fondazione Prada ed i nodi veri del trasporto sui quali vive la città.
Due giorni fa ho aperto la loro porta nella corte di un palazzo vicino alla zona Tortona, ed al mio cuore di vecchio Bilbo sempre alla ricerca del tesoro è parso di entrare nella terra di Lorien, il regno degli Elfi di Tolkien: luce, efficienza, intelligenza e passione. Palesemente vincenti con quella evidenza che ha la realtà “realizzata” che non può più destare invidia ma solo ammirazione.
Hanno realizzato un albergo senza demolire e costruire un solo metro cubo, con tanto lavoro per tutti e guadagni reali di cassa e non perdite di bilancio da scaricare sugli altri. Non voglio esagerare ma credo che una delle sfere Dragon Ball per la soluzione alla sfida del ventunesimo secolo l’abbiamo trovata in questi ragazzi. Qualcuno vada a studiare come si fa a costruire con la forza del pensiero e della tecnologia un albergo vero ma invisibile, che guadagna soldi veri senza portare via nulla a nessuno e pagando tutte le tasse dovute.
Il suo nome: vabbè giuro che non mi pagano, però lo devo dire perché se lo meritano… Sweetguest, il nome è forse la cosa meno azzeccata ed il collettivo universitario probabilmente avrebbe suggerito qualcosa di meno caramelloso, ma tant’è.
Signori ministri, la prossima volta che vi parlano di industria 4.0 lasciate perdere Confindustria e fate piuttosto un “call” a questi ragazzi.
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